Il porto di Catania nel 1860 (Levy-Nerenstein, part.). La porta del Porticello, vicino palazzo Biscari, fu demolita silenziosamente in quegli anni; alcuni frammenti si trovano al Castello Ursino.
Il porto di Catania nel 1860 (Levy-Nerenstein, part.). La porta del Porticello, vicino palazzo Biscari, fu demolita silenziosamente in quegli anni; alcuni frammenti si trovano al Castello Ursino.

Ripubblichiamo questo articolo del 14 ottobre 2015, che all’epoca fece scalpore, e andò perduto assieme al vecchio sito. Con la speranza che il dibattito non si sopisca.

Luigi Gennaro

Un riconoscimento particolare merita la pagina Facebook Catania sparita, da cui provengono le bellissime immagini storiche presenti in questo articolo.

Inauguriamo oggi una nuova sezione di Markaliotru.it, dedicata all’urbanistica. Ovviamente non siamo architetti, né possiamo credere di aver voce in capitolo riguardo gravi problemi di riorganizzazione dello spazio urbano. Però la questione – tutt’altro che piacevole – della mobilitazione popolare contro i folli abbattimenti previsti dal raddoppio degli archi della marina ha da un lato dimostrato la necessità di dare spazio alle proposte della popolazione, e dall’altro di dover ripensare certe folli scelte del passato. Certamente non pretendiamo di tracciare quadri storici completi, né di offrire proposte in toto ragionevoli; ma se – anche con la scusa delle valutazioni dell’impatto economico delle proposte – ci priviamo del diritto a sognare, quel che perdiamo è lo stesso diritto al futuro.

Proprio la questione della strada ferrata continua ad essere di particolare rilievo a Catania. Quando, negli anni ’60 dell’800, ingegneri sabaudi che conoscevano solo dalle mappe la costa catanese decisero a tavolino di distruggere in maniera criminale una parte del centro storico, si poteva forse ancora accampare l’esigenza della modernizzazione; ma i Borboni – che avevano introdotto in Italia il trasporto ferroviario – certamente non avrebbero mai pensato di demolire due chiese, di cui una monumentale, tratti di mura cinquecenteschi, lambire un castello del XIII secolo e occludere un pezzo di mare al solo scopo di far passare un unico binario su di una serie piuttosto goffa di archetti di pietra bianco-nera. Oggi i treni si muovono sotto terra e sott’acqua, il trasporto su gomma ha raggiunto livelli di efficienza impensabili solo mezzo secolo fa, ed il panorama dei trasporti è bastevolmente mutato da render lecita la domanda: che senso ha oggi questo eco-mostro ante litteram, questa cintura di ferro che ancor oggi taglia letteralmente a metà i palazzi di Via San Calogero, per una decina di metri schiva un complesso termale romano in ottime condizioni e, cosa ancor più grave, ha reso malsana e inabitabile una zona intera della città?
Non ci compete rispondere a questa domanda; d’altro canto possiamo osservare come Catania sia una città con crescente vocazione turistica che mostra una quantità spropositata di abominii paesaggistici, dal ponte che taglia a metà il piccolo golfo di Ognina (sostanzialmente eliminandone la sfruttabilità economica), alle fatiscenti strutture della zona delle ex Ciminiere, fino all’unica metropolitana panoramica d’Italia, ove per la cifra di 1€ è possibile attraversare la colata di cemento che separa la città dal mare a bordo di un vagone rivestito di scarabocchi.


Il peggior pugno nell’occhio restano gli archi della marina, di una marina che non esiste più, ed è oggi ricettacolo di sporcizia, nonché ottimo autodromo dove giocare ad investire i passanti, per l’assenza di marciapiedi e di strutture idonee all’attraversamento, rese impossibili dallo spazio angusto. Va detto che gli archi originali, pur nella loro follia, non erano paragonabili agli attuali, già raddoppiati, e si snodavano lungo una spiaggetta frequentata dai pescatori, la “Marina” cui allude ancor oggi il nome del viadotto. Prima che la mano sabauda facesse danno, questa spiaggetta lambiva le mura cinquecentesche del Bastione Grande (ormai ridotto a frammento murario praticamente scollegato dal resto delle fortificazioni), ed era interrotta da grossi scogli di pietra lavica.

Il porto di Catania nel 1823 – Rilievo dell’Ammiragliato Britannico (fonte: IGM, http://www.igmi.org/ancient/scheda.php?cod=12706) Nella zona di destra si riconosce la mole rettangolare del Bastione, il piccolo molo del porto, lo scoglio su cui sorgeva la chiesa del Salvatore e, dietro, la chiesa di San Francesco di Paola.

Su uno di questi, raggiungibile grazie ad una scalinata, si ergeva la chiesetta del Salvatore, costruita nel secolo XVII, e raffigurata in numerosi disegni ed incisioni: resistita al terremoto del 1693, era una piccola perla della Catania seicentesca che fu fatta a pezzi senza ritegno per far posto ai pilastri degli archi. Ancòra nel 1860 la sua singolare posizione affascinava il fotografo Eugenio Sevaistre, che ne trasse l’unica (sbiadita) fotografia disponibile, in cui compare, in lontananza, anche la monumentale Chiesa del Signore Ritrovato, collocata sugli scogli dell’attuale Piazza dei Martiri e “suicidata” nella stessa occasione. Se non è vana speranza, è possibile che alcuni resti della chiesetta del Salvatore si trovino ancora al di sotto di alcune delle strutture dell’attuale porto.

La chiesetta del Salvatore secondo Jean Houel, Un promontoire de lave au bord de la mer, près de Catane (fine XVIII sec., Museo del Louvre, INV 27187).
La chiesa del Salvatore negli anni ’60 del 1800 e, in lontananza, la chiesa del Signore Ritrovato.

Insomma, gli archi sono stati una violenza criminale contro la città; il problema è che questa violenza si perpetua fino al giorno d’oggi, con traffico ingestibile, immondizie, segregazione del mare e addirittura la balorda necessità di modificare momentaneamente la cuspide del Fercolo di Sant’Agata quando deve passare sotto uno degli archi per raggiungere la pescheria, un tragitto che possiamo solo immaginare che fascino avesse quando veniva compiuto sul mare.

Alla loro mole il tempo aggiunse un effetto collaterale inizialmente non contemplato. I catanesi da sempre desideravano un porto (arrivarono a sperare che le lave del 1669 lo sagomassero quasi magicamente, ma l’effetto non si ebbe), e solo l’ultimo Ottocento, nonostante miriadi di tentativi falliti, riuscì ad accontentare i bisogni economici della città, all’epoca già entrata nel suo periodo d’oro grazie all’esplosione del mercato dello zolfo. D’altro canto l’area portuale fu ottenuta a prezzo della sottrazione di spazio al mare, creando delle secche parallele alla vecchia linea di costa che, col tempo, provocarono una sempre maggiore stagnazione dell’acqua verso la vecchia Marina. Il fenomeno è abbastanza evidente già nei primi anni del ‘900, complice tra l’altro la messa in sicurezza dell’attuale via Dusmet, ed è macroscopico nel secondo dopoguerra. L’indice dello spostamento della costa (anche tenendo conto delle variazioni di marea) può essere ben determinato in base alla posizione delle barche nella meravigliosa fotografia del bastione di Palazzo Biscari scattata dal Rev. Bridge nel 1846 (nella primissima serie di foto catanesi).

Cartolina acquerellata del 1917. La strada ha ulteriormente allontanato il mare da Palazzo Biscari.

Negli anni ’70 del ‘900 il raddoppio del binario (un raddoppio parziale, perché via San Calogero resta fortunosamente inalterata), ed il nuovo corso dell’economia, in una città che subisce la ferita ancora sanguinante dello sventramento del quartiere San Berillo, fanno passare in secondo piano le opere di definitivo interramento della Marina, ridotta parte a strada e parte a posteggio per gli impiegati del porto, nella cui area sono edificati palazzoni di cemento armato secondo l’uso corrente. L’intera area viene recintata, ed è oggetto di sostanziale appropriazione da parte dei portuali, che ne diventeranno referenti esclusivi, operando tutte le scelte successive: l’espropriazione della società cittadina è totale, e perdura fino ad oggi. Il confronto tra le cartine della zona prima e dopo questo scempio è assolutamente indicativo.

Scannerizzazione di un raro documento recuperato dalla pagina Facebook Catania sparita, tratto dal Giornale dell’Ingegnere-Architetto ed Agronomo (a. XIII, n. 6, Giugno 1865). La “strada Gallazzo” è via Plebiscito. La chiesetta del Salvatore si trova esattamente in prossimità di Piazza San Francesco di Paola, verso cui si vede la mole trapezoidale del Bastione.
L’area del porto oggi (fonte: Bing Maps).

Alla fine della storia, la nostra storia, ci ritroviamo a dover convivere con gli errori del passato, e siamo quasi impossibilitati a prescindere da logiche economiche che in larga misura non comprendiamo, e la cui attualità è discutibile. In attesa che la Rete Ferroviaria Italiana decida quale piano approntare definitivamente (e soprattutto se intenda davvero interrare la linea ferroviaria), gli archi della Marina sono un pesante e grottesco fardello. In prospettiva essi vanno certamente abbattuti, non solo per ridare dignità alla città, ma soprattutto per eliminare una costante causa d’intralcio alla viabilità ed alla fruibilità di un’area nevralgica, eventualmente conservandone una parte, a mo’ di monumento alle follie della crescita forzata, all’interno della già devastata villetta Pacini. Anche il loro abbattimento, a ben vedere, non eliminerebbe l’assoluta assenza del mare dalla città: l’imperativo dev’essere, sempre e comunque, quello di riportare l’acqua sotto Palazzo Biscari, e di ridare vita all’antica Marina di Catania in un’ottica, tra l’altro, prettamente turistica. Il vero porto turistico, anzi, dovrebbe essere in prospettiva quello “originale” di Catania, sotto la cupola della Cattedrale, e non di certo all’ombra dei residui industriali dei silos del Porto.

Proposta di riapertura del collegamento col mare. In azzurro l’area del bacino (comprensiva di spiaggia), in rosso i belvedere ed il grigio l’area della rotatoria di accesso alla strada sospesa.

Da qui la proposta: perché non riaprire subito Piazza Borsellino al mare? L’idea sembrerà balzana ed irrealizzabile, ma in realtà gli stessi allagamenti dell’autunno 2015 hanno confermato come l’area in questione sia sostanzialmente sotto il livello del mare, e non sopra: l’impressione è che essa sia stata in larga misura prosciugata, probabilmente senza nemmeno particolari cure, e sicuramente senza alterare le opere murarie sotterranee. Intendo dire che sotto terra devono esistere ancora tutte le banchine, i moli e le strutture di contenimento costruite prima dell’interramento, sembrando grandemente improbabile (ed antieconomico) che gli ingegneri pubblici le abbiano fatte demolire per poi dover comunque ricoprire. Chiaramente si tratta di indagini da compiere, ma sono tutte fattibili. La viabilità, peraltro, migliorerebbe sensibilmente per la sostituzione del collo di bottiglia di piazza Alcalà/Borsellino con la strada, già esistente, interna all’area portuale, che andrebbe sollevata il tanto che basta a consentire il superamento del canale d’ingresso del bacino. La soluzione consentirebbe anche la valorizzazione di una serie di aree, oggi prive di interesse, come belvederi, con immediata possibilità di sfruttamento economico, per l’autorità portuale, dei decrepiti edifici di sua pertinenza.

Catania tornerebbe ad essere una città marinara, nonostante lo sfacelo degli archi, ed in attesa della loro definitiva eliminazione. E chissà, potrebbe anche venirci in mente di trovare un posticino, sull’acqua, per ricostruire la chiesetta del Salvatore, oggi riedificata in via Dusmet, rifacendola proprio com’era, con la scalinatella, la cupoletta, e quel gusto di bel tempo andato che permea le antiche incisioni. Quando, a ben pensarci, la Sicilia era una nazione, e l’economia era guidata, più che subita. Deliri? Forse. Ma sono pur valido esercizio del diritto sacrosanto a sognare un futuro migliore.

Corollario tragicomico

Chi ha pensato d’indagare quale fosse l’idea originale di RFI per l’ammodernamento degli archi della Marina? Secondo gli ingegneri delle Ferrovie, in questi anni sopra gli archi – ulteriormente ampliati – dovevano essere collocate delle protezioni alte ben due metri. Scongiurata l’ipotesi, resta la domanda: di che si trattava esattamente? Per capire cosa ci siamo persi, ecco una foto dal contenuto inquietante tratta in prossimità della fermata metropolitana di Turro, in quel di Milano. Ecco cosa, verosimilmente, RFI voleva appioppare alla cittadinanza Catanese.

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